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(2008) per voce recitante, flauto, violoncello e pianoforte
Testo di Sonia Bo, liberamente tratto dalle Metamorfosi di Ovidio
Progetto Audiovideostorie – SIMC
Prima esecuzione Bergamo, 21 marzo 2009
Sonia Grandis voce recitante
Ensemble Simc
Marcello Parolini direttore
Durata 5’ ca.
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per voce recitante, flauto, clarinetto, violino, violoncello e pianoforte
Testo di Sonia Bo, liberamente tratto dalle Metamorfosi di Ovidio
Alta si erge la reggia del Sole su immense colonne, tutta bagliori d’oro e fiammate di rame.
Quando, per un erto sentiero, vi giunge il figlio di Climene, subito si dirige al cospetto del padre.
Avvolto in un manto purpureo, Febo siede su un trono tutto sfolgorante di smeraldi luminosi.
«Perché sei venuto?» gli dice il Sole. «Cosa cerchi in questa rocca, Fetonte, figlio mio?»
E quello: «O luce, padre mio, dammi una prova che mi assicuri di essere tuo figlio!»
A queste parole il genitore depone i raggi e gli dice: «Non c’è ragione per negare che tu sia mio e, perché tu non abbia dubbi, chiedimi quello che vuoi».
Non appena tace il figlio gli domanda il cocchio, col permesso di guidare per tutto un giorno i cavalli dai piedi alati.
Si pente il padre di aver giurato, ed esclama: «Folle fu la mia proposta: la tua richiesta è colma di rischi. Nessuno, tranne me, saprebbe reggersi su quel carro di fuoco. Attraverso insidie e visioni di mostri avviene il tuo viaggio; un castigo, Fetonte mio, mi chiedi in dono».
Il monito è concluso, ma quello non vuol sentir ragioni e allora Febo, dopo aver indugiato tutto il possibile, conduce il giovane al cocchio, sublime dono di Vulcano.
L’Aurora spalanca le sue porte purpuree e fuggono le stelle. Le Ore, in attesa di aggiogare i cavalli, rapide, dal fondo delle stalle traggono i destrieri che spirano fuoco. Allora il padre col cuore inquieto gli dice: «Se almeno riesci a seguire i consigli di tuo padre, perché il cielo e la terra ricevano il giusto calore, non spingere il cocchio in basso e non lanciarlo oltre misura nell’etere. Per tutto il resto m’affido alla Fortuna».
Balza il figlio sul cocchio volante, felice di stringere finalmente nelle mani le briglie. Ma il carico è leggero, non quello che i cavalli del Sole conoscono, e il giogo manca del solito piglio; così, il cocchio, privo del peso consueto, sobbalza nell’aria. Appena se ne accorgono, i quattro destrieri si scatenano, lasciano la pista battuta e non corrono più ordinati. Quando poi dalla vetta del cielo l’infelice Fetonte si volge a guardare in basso la terra lontana, così lontana, impallidisce, di fulmineo sgomento gli tremano le ginocchia e, pur fra tanta luce, un velo di tenebra gli cala sugli occhi. Dispersi nel cielo screziato in ogni luogo vede prodigi e fantasmi di animali mostruosi. V’è un punto in cui lo Scorpione incurva le sue chele strette a forcipe. Quando il ragazzo lo scorge, che, asperso tutto di nero veleno, minaccia di colpirlo con la punta dell’aculeo, sconvolto dal gelo del terrore lascia andare le briglie; i cavalli smarriscono la strada e, senza freno, vagano per l’aria di regioni ignote, in disordine rovinano, cozzano contro le stelle infisse nella volta del cielo, trascinano il carro in zone inesplorate. Ora balzano in alto, ora si gettano giù a capofitto per sentieri scoscesi in spazi troppo vicini alla terra. Così, nei punti più alti, il suolo è ghermito dal fuoco, si screpola in fenditure e inaridisce; bruciano le piante e le messi, con le loro mura crollano città immense e gli incendi riducono in cenere regioni intere coi loro abitanti. Dovunque guardi, Fetonte vede la terra in fiamme e non resiste più a quell’immenso calore: respira folate infuocate ed avverte il suo cocchio farsi incandescente. Un fumo afoso l’avvolge e, immerso in quella caligine di pece, non sa più dove sia e dove vada.
Allora Giove, chiamati a testimoni gli dei, sale in cima alla rocca e, librato un fulmine alto sulla destra, lo lancia contro l’auriga, sbalzandolo dal cocchio e dalla vita. Fetonte, con le fiamme che gli divorano i capelli di fuoco, precipita vorticosamente su se stesso. Lontano dalla patria l’accoglie l’immenso Eridano e Le Naiadi d’Occidente seppelliscono il corpo incenerito.
Affranto, suo padre Febo nasconde il volto e tutto un giorno trascorre senza sole. Climene, la madre, impazzita dal dolore, vaga per tutto l’universo cercando il corpo senza vita. Non minore è la sofferenza delle Eliadi: offrono lacrime e, prosternate sul sepolcro, notte e giorno invocano il fratello Fetonte.
Quattro volte piena è tornata la luna e quelle ancora si abbandonano al pianto, quando fra loro Faetusa, la sorella maggiore, volendo prostarsi a terra, lamenta che le si siano irrigiditi i piedi; premurosa Lampezie cerca di avvicinarla, ma una strana radice la trattiene; un’altra sul punto di strapparsi i capelli con le mani stacca delle foglie. E mentre allibiscono, una corteccia le avvolge e solo la bocca che invoca la madre resta viva in loro. E cosa può fare la madre, se non correre qua e là, dove la trascina l’angoscia, a dispensare baci finché riesce? Non basta: tenta di svellere i rami appena spuntati e da questi stillano gocce di sangue, come da una ferita. «Fermati, madre, ti prego!» gridano quelle per la sofferenza. «Nell’albero si strazia il nostro corpo» e la corteccia soffoca le ultime parole.
Le Eliadi, trasformate in aggraziati, esili pioppi, dondolano ancora oggi le loro piccole foglie sulle rive del fiume Po.