D’ametista

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(1996) per voce recitante, clarinetto basso, violoncello, arpa e live electronics ad libitum

Testo di Eugenio Montale

Prima esecuzione Genova, Auditorium Carlo Felice, 7 maggio 1996

Rocco Parisi clarinetto
Riccardo Agosti violoncello
Cristina Bianchi arpa
Riccardo Dapelo live electronics

Edizione Ricordi

Partitura (137386)

Durata 8’ ca.

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Descrizione

Il titolo della composizione, tratto da “L’orto” di Eugenio Montale, fa riferimento alla parola conclusiva della terza strofa, strofa centrale ed essenziale alla costruzione poetica, nonché punto culminante e chiave di volta per la comprensione della lirica. La scelta stessa di intitolare il pezzo D’ametista intende segnalare una ben precisa intenzione compositiva nella costruzione di un brano già abbastanza particolare per l’organico a disposizione e ancor più per la singolarissima presenza della voce del poeta. In questo caso, infatti, il compositore si trova a confrontarsi non con un testo da “mettere in musica”, verosimilmente da impiegare in una parte cantata, e nemmeno si pone in relazione con un melologo di tipo ottocentesco, bensì con la viva recitazione dei versi da parte del loro autore. Oltre a ciò l’intervento del live-electronics consente di frammentare, moltiplicare, amplificare, riverberare, spazializzare l’intensa voce di Montale, nonché di fonderla in un medesimo amalgama con le parti strumentali.

Tornando al titolo, la scelta di D’ametista è densa di significato per le relazioni che vengono ad instaurarsi tra testo e musica, due linguaggi autonomi che percorrono sentieri paralleli eppure prodigiosamente convergenti. Anzitutto una ricerca di corrispondenze coloristiche che si dipanano dal centro (la terza strofa), dal viola “cuore d’ametista” alle variegate immagini disseminate (“le ghirlande dei carpini”, “lo spumoso confine dei marosi”, le “corone di scogli sommersi o nerocupi o più lucenti della prima stella che trapela”, ma anche “il duro sguardo di cristallo”, le “acri tendine di fuliggine” e i “lampi di officine”). In secondo luogo la definizione di una forma in divenire che tenga conto del climax della terza strofa, musicalmente tradotto con una complessa situazione cadenzale. Particolarmente interessante risulta inoltre, proprio ai fini di una ricerca di convergenze tra i due linguaggi, l’iterazione di “non so se” all’interno delle prime due strofe, la ripetizione de “L’ora” (primo e terzo verso della terza strofa) e la sua variazione ne “il dì” (nono verso della terza strofa), la ripresa di “o” (“o labbri muti”, “o membra”, “o diti”, “o intento”) che danno origine ad una serie di sinuose variazioni, rifrazioni, echi e riverberi di nuclei di immagini sonore. (Sonia BO)

 

 

L’orto

 

Io non so, messaggera

che scendi, prediletta

del mio Dio (del tuo forse) se nel chiuso

dei meli lazzeruoli ove si lagnano

i luì nidaci, estenuanti a sera,

io non so se nell’orto

dove le ghiande piovono e oltre il muro

si sfioccano, aerine, le ghirlande

dei carpini che accennano

lo spumoso confine dei marosi, una vela

tra corone di scogli

sommersi o nerocupi o più lucenti

della prima stella che trapela –

 

io non so se il tuo piede

attutito, il cieco incubo onde cresco

alla morte dal giorno che ti vidi,

io non so se il tuo passo che fa pulsar le vene

se s’avvicina in questo intrico,

è quello che mi colse un’altra estate

prima che una folata

radente contro il picco irto del Mesco

infrangesse il mio specchio, –

io non so se la mano che mi sfiora la spalla

è la stessa che un tempo

sulla celesta rispondeva a gemiti

d’altri nidi, da un folto ormai bruciato.

 

L’ora della tortura e dei lamenti

che s’abbatté sul mondo,

l’ora che tu leggevi chiara come in un libro

figgendo il duro sguardo di cristallo

bene in fondo, là dove acri tendine

di fuliggine alzandosi su lampi

di officine celavano alla vista

l’opera di Vulcano,

il dì dell’Ira che più volte il gallo

annunciò agli spergiuri,

non ti divise, anima indivisa,

dal supplizio inumano, non ti fuse

nella caldana, cuore d’ametista.

 

O labbri muti, aridi dal lungo

viaggio per il sentiero fatto d’aria

che vi sostenne, o membra che distinguo

a stento dalle mie, o diti che smorzano

la sete dei morenti e i vivi infocano,

o intento che hai creato fuor della tua misura

le sfere del quadrante e che ti espandi

in tempo d’uomo, in spazio d’uomo, in furie

 

di dèmoni incarnati, in fronti d’angiole

precipitate a volo… Se la forza

che guida il disco di già inciso fosse

un’altra, certo il tuo destino al mio

congiunto mostrerebbe un solco solo.

 

(Eugenio Montale)

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